FOTO / Avellino 41 anni dopo. “Ancora troppe ferite aperte e poca solidarietà”

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Quel giorno di 41 anni fa ha cambiato la vita ed il destino di una provincia intera. Per generazioni. Anche di chi non era nato o, magari, non era ancora nei progetti dei propri genitori. Quarant’anni più uno dopo dal 23 novembre del 1980 è dunque impossibile dimenticare. Quasi un dovere ricordare quella tragedia immane. Quella sciagura.

Eppure, i presupposti di quella domenica di fine novembre non erano per nulla cattivi. Era una bella giornata di sole, nel pomeriggio l’Avellino – erano i tempi della serie A, i tempi di Juary – aveva battuto l’Ascoli all’allora stadio “Partenio”. Gli avellinesi, gli irpini, felici, guardavano la sfida tra Juve ed Inter che Rai Uno trasmetteva. Alle 19.34, la terra tremò per un minuto e venti interminabili secondi. Il terribile terremoto, con epicentro in Irpinia, che colpì la Basilicata e una limitata area della Puglia, di magnitudo 6.9 (pari al decimo grado della scala Mercalli), secondo le stime più accreditate causò 2.570 morti (2.914, secondo altre fonti), 8.848 feriti e circa 300mila sfollati.

Tutto quello che è venuto dopo, è storia. Una storia raccontata, tramandata. Una storia, forse, ancora da scrivere per intero. 41 anni dopo, come sempre, l’Irpinia si ritrova per ricordare. Ad Avellino, prima la messa al Duomo e poi la deposizione della corona in onore delle vittime.

“Ritengo sia doveroso ricordare ancora, fare memoria di un evento che scolvolse la vita della nostra Irpinia. E’ doveroso ricordare soprattutto per fare un ammonimento a noi stessi: la nostra vita è fragile e precaria, prova ne è l’esperienza che stiamo vivendo in questo ultimo anno e mezzo con la pandemia”.

Don Enzo De Stefano, vicario del vescovo di Avellino, prima della celebrazione, si trattiene con i giornalisti.

“La nostra vita è fragile, quindi è importante ricordare il passato non solo per commmemorare i defunti che ovviamente meritano rispetto, ma per tramandare alle nuove generazioni che bisogna vivere la vita tenendo presente delle lezioni del passato”.

Di quei giorni, Don Enzo ricorda dei particolari che gli sono rimasti impressi nella mente: “Il terremoto ci ha tramandato l’esperienza, molto bella, della solidarietà. Ci fu grande solidarietà non solo tra noi, ma anche da parte di moltissime persone che vennero in Irpinia per sostenerci. Quella lezione del terremoto, quella lezione di allora, potrebbe essere utile anche per questi tempi così difficili che stiamo vivendo. Purtroppo, noto che non è così, siamo più chiusi, c’è più egoismo”.

Avellino è una città, putroppo, ancora oggi ferita. I famosi “buchi neri” tardano ad essere riempiti. Una sorta di maledizione. “E’ vero, ci sarebbe ancora tanto da fare, anche nel centro storico. Ogni volta che passo per via Nappi, noto un palazzo che rappresenta un po’ il simbolo di questo terremoto infinito. Ancora macerie, dopo tanti anni, come la stessa Dogana. Come è possibile che non si trova ancora una soluzione per rimarginare queste ferire ancora aperte?”.