Terremoto 1980, il ricordo dell’on. Pugliese sulla testata Libero

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Sull’edizione odierna di Libero, l’on. Marco Pugliese, per la ricorrenza del terremoto del 1980, ha ricordato quella terribile domenica che colpì tutta l’Irpinia. Riportiamo l’articolo pubblicato sulla testata diretta da Vittorio Feltri dal titolo “il terremoto dell’Irpinia e quelle cicatrici ancora aperte”. Il 23 novembre 1980. Un giorno all’apparenza come tanti altri, a parte un insolito tepore, a dir poco estivo, presagio di un’apocalisse che solo il tempo consente di decifrare. Avevo nove anni… ero solo un bambino. Stavo giocando in casa con fratelli e cugini, quando quell’attimo lungo novanta secondi, piombò sulle nostre vite innocenti. L’unica parola di cui disponevamo per definire il tremendo e incessante “attimo” era “temporale” con la differenza che il tuono era un forte boato che veniva da lontano e i lampi erano le fiamme che dalla terra si innalzavano in aria. Non avevamo mai sentito un temporale così lungo e potente da travolgere ogni cosa. Addirittura tra noi bambini qualcuno ha pensato che fosse scoppiata la guerra. Ricordo ancora quelle urla, quei pianti di paura e poi di dolore, quel polverio nell’aria, ricordo ancora quel panico dei genitori alla ricerca dei propri figli. Ricordo sempre quel cielo stellato di una cupa notte di autunno. Ma questo è un ricordo adulto, non certo del bambino che ero allora. La parola “terremoto” apparteneva solo ai libri di scuola, non alla terra, ne tanto meno alla nostra Irpinia. Il tempo ha portato alla luce l’irriducibile alleanza che quella parola, all’epoca così estranea e lontana, alle ore 19.34 di quella domenica di novembre aveva stretto con il mio territorio. Un’alleanza che, dopo ventott’anni, ancora fa sentire la sua eco. Sono le ferite mai cicatrizzate per il lutto che ha funestato tante famiglie; sono i sogni di una ricostruzione ancora in corso d’opera, o compiuta a fronte di innumerevoli sprechi e speculazioni; è il suono metallico dei container, pieni di amianto nei quali ancora si allevano le nuove generazioni; le valanghe di cemento con le quali sono state incautamente obliterate le tracce storiche e architettoniche del nostro passato. Parte della nostra identità e moralità è sepolta sotto quelle macerie. Il terremoto ha indebolito le nostre radici, fiaccando il coraggio, la voglia di essere artefici del nostro futuro a vantaggio di un’incessante emigrazione. Forse, proprio quel triste ricordo di bambino, cerca oggi una speranza sociale e istituzionale per poter guardare, senza dimenticare a un futuro migliore.

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