Omicidio Gioia, la sentenza: il delitto ideato e programmato da Elena e Giovanni

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Giovanni Limata ed Elena Gioia

AVELLINO- “L’omicidio di Aldo Gioia fu ideato, organizzato ed eseguito dai due imputati in concorso fra di loro”. E’ uno dei passaggi chiave delle trentaquattro pagine di motivazioni della sentenza emessa il 24 maggio scorso (e depositata l’11 agosto) nei confronti di Giovanni Limata ed Elena Gioia, noti come i “fidanzatini” killer, condannati a ventiquattro anni di reclusione (così come aveva chiesto al termine della sua requisitoria il pm della Procura di Avellino Vincenzo Russo) per il delitto di Aldo Gioia, padre di Elena.

Il perché della condanna è stato ricostruito sulla base dell’istruttoria dal presidente della Corte di Assise di Avellino (ed estensore della stessa sentenza) il giudice Gian Piero Scarlato. Tra qualche ora scadranno i termini di impugnazione della sentenza, molto probabile che sarà opposta dalle difese dei due imputati, l’avvocato Livia Rossi che difende Elena Gioia e l’avvocato Rolando Iorio che rappresenta invece Giovanni Limata, autore materiale del delitto.

Le altre parti in causa sono quelle che rappresentano i familiari della vittima e anche dell’imputata. Si tratta dell’ avvocato Brigida Cesta che difende i fratelli della vittima, Giancarlo e Gaetano Gioia e dell’avvocato Francesca Sartori che difende la moglie e la figlia della vittima (mamma e sorella di Elena Gioia). Nei giorni scorsi Limata era tornato alla ribalta della cronaca per l’ennesimo episodio di autolesionismo all’interno del carcere di Bellizzi Irpino dove è detenuto dall’aprile del 2021.

IL DELITTO E LE INDAGINI
Come è noto la vicenda giudiziaria si riferisce al gravissimo fatto di sangue avvenuto intorno alle 22:30 del 23 aprile 2021 all’interno dell’appartamento della famiglia Gioia al civico 253 di Corso Vittorio Emanuele ad Avellino. Alle successive 22: 38 giungeva una telefonata alla sala operativa della Questura di Avellino da parte di una donna, si trattava di Liana Ferrajolo, moglie della vittima, per chiedere l’intervento delle forze dell’ordine poiché il marito era stato accoltellato.

Aldo Gioia fu rinvenuto dal personale della “Volanti” riverso nel salone di casa con la figlia Emilia che tentava di tamponare la copiosa perdita di sangue con una tovaglia. L’uomo sarebbe deceduto poco dopo la mezzanotte del 24 aprile 2021 all’ospedale Moscati di Avellino.

Nel corso del sopralluogo eseguito dal personale della polizia scientifica all’interno dell’immobile, nei locali sottoscala in prossimità dell’ascensore veniva rinvenuto un giubbino nero e un fodero di coltello di colore nero e all’interno del giubbino, oltre a capelli, biancheria e fogli di carta era stata rinvenuta una tessera sanitaria intestata a Limata Giovanni classe 98 di Cervinara.

Limata era stato scoperto presso l’abitazione dei genitori a Cervinara e in una borsetta nera era stata anche recuperata l’arma del delitto, consegnata dallo stesso imputato. All’esame esterno eseguito sul corpo della vittima dalla dottoressa Carmen Sementa la salma di Aldo Gioia presentava ben 14 lesioni da arma bianca classificabili come lesioni da taglio localizzate sia agli arti superiori che a quelli inferiori. Le quattro all’altezza del torace avevano attinto gli organi interni. Le ferite erano compatibili con il coltello sequestrato. Lo stesso Limata, condotto in Questura dagli agenti della Squadra Mobile agli ordini del vice questore Giancarlo Aurilia ammetteva di essere l’autore del delitto e soprattutto faceva il primo riferimento al coinvolgimento di Elena Gioia nella programmazione del delitto. Il processo con rito immediato era iniziato davanti ai giudici della Corte di Assise il 24 ottobre del 2021.

LA PREMEDITAZIONE
Nel corso dell’istruttoria sono stati tre i temi principali su cui è ruotata poi la discussione e la decisione finale. La premeditazione, contestata come aggravante dallo stesso pm della Procura di Avellino che ha condotto le indagini, il sostituto procuratore Vincenzo Russo. Ed una delle prima valutazioni contenute nella sentenza si riferisce proprio alla premeditazione.

Accogliendo la tesi della Procura, tra l’altro avvalorata da una serie di riscontri emersi soprattutto dalla mole di messaggi e dalle testimonianze riportate in aula da tre testimoni, tutte legate a Limata. “E quel che maggiormente interessa – scrive il giudice Scarlato nelle sue motivazioni – vanno evidenziate le conversazioni che i due imputati si scambiano a partire dal giorno 17 aprile: emerge infatti in maniera lampante che essi, in quella data, hanno già maturato Il proposito criminoso che, nel suo momento iniziale effettivamente contemplava la eliminazione fisica dell’intero nucleo familiare di Elena”.

Tra l’altro come ricordato dalle due donne che vivevano con Limata e da un’amica dello stesso, il ventenne di Cervinara da alcuni giorni portava avanti su un calendario e negli stati di WhatsApp un vero e proprio “countdown” della morte. “In definitiva – si legge nella sentenza – come fu da subito chiaro attraverso gli elementi in sintesi riportati, è certo che l’omicidio di Aldo Gioia fu ideato, organizzato ed eseguito dai due imputati in concorso fra di loro”. Del resto ci sono state anche le confessioni dei due imputati.

ELENA E GIOVANNI, UNA RELAZIONE “TOSSICA
Elena convinta da Giovanni o viceversa? Un altro tema su cui si è sviluppata la difesa registra proprio questo dato: sia Giovanni che Elena erano consapevoli del feroce delitto compiuto (…) Il quadro emergente dalle prove raccolte in dibattimento, già assolutamente convergente nell’individuare nei due giovani, in concorso tra loro, i responsabili dell’omicidio di Aldo Gioia, si arricchiva poi della confessione.

Quella di Giovanni Limata era affidata ad una memoria dello stesso manualmente redatte nel corso dell’udienza del 27 aprile 2022. L’imputato, in buona sostanza, dopo aver chiesto scusa per quanto accaduto la sera del 23 aprile 2021, rappresentava che non era stata sua intenzione togliere la vita ad Aldo Gioia e di non aver avuto motivo per ucciderlo, non avendo da quello ricevuto mai minacce o subito del male; assumeva dunque che era stato costretto a compiere quel gesto da Elena Gioia, la quale si lamentava sempre per il fatto che i suoi genitori l’avevano maltrattata, non le volevano bene, la picchiavano e la sgridavano sempre, il punto che lei era arrivata a provare un sentimento di odio profondo nei confronti di tutti i suoi familiari.

A conferma di tanto Limata raccontava di aver sofferto tanto anche lui nel corso della sua vita, di aver nutrito analogo sentimento di odio nei confronti dei suoi genitori, odio che però non era mai tramutato in un’azione concreta e tanto assumeva dicendo che se veramente era la persona pericolosa e cattiva che tutti indicavano, egli avrebbe indirizzato le sue azioni proprio nei confronti dei genitori per far pagare loro le sofferenze subite nel corso della sua vita. Non riteneva perciò di essere un assassino definendosi solo un uomo innamorato che si era fatto manipolare la mente della sua donna che si era approfittata del grande amore che provava per lei.

Nella stessa udienza veniva esaminata Elena Gioia la quale innanzitutto ripercorreva le tappe della sua relazione con Limata conosciuto poco prima dell’estate del 2019, quando lei era appena sedicenne, e tramite il social network Facebook e la piattaforma WhatsApp lo ha iniziato a contattare per poi incontrarsi, la prima volta, il 9 luglio del 2019, a Cervinara.

La relazione era proseguita prevalentemente con contatti su queste applicazioni di messaggistica in maniera davvero impressionanti i due si scambiano centinaia di messaggi ogni giorno, nel mentre erano stati nel corso del tempo davvero sporadici; col tempo Elena aveva messo al corrente di questa sua relazione la sua più cara amica, la sorella e poi anche i genitori raccogliendo però più che altro commenti negativi da parte di questi ultimi se non proprio opposizioni e gli inviti a troncare il rapporto. Elena ha invece affermato che non era suo intento uccidere davvero il padre e gli altri familiari concludendo che era molto dispiaciuta per l’accaduto. Avrebbe fatto qualsiasi cosa per rimediare, che voleva chiedere scusa soprattutto agli zii oltre che alla madre e alla sorella sperando di poter essere perdonata un giorno”.

LA PERIZIA SCIAUDONE: CAPACI DI INTENDERE E VOLERE
Larga parte delle 34 pagine di motivazione della sentenza è stata riservata al profilo relativo alla capacità di intendere e di volere degli stessi imputati come è noto nel corso del dibattimento erano stati introdotti dalle divise elementi tali da far dubitare della imputabilità di Elena Gioia e Giovanni Limata.

In aula sono stati ascoltati vari esperti consulenti delle parti, a partire dal dottor Paolo Cavalli della dottoressa Giulia Bocchino dal dottor Stefano Ferracuti e Gianmarco Tessari e infine il dottor Stisi tutti rappresentavano plurimi elementi critici della personalità del Limata e della Gioia, evocando anche la sindrome psichiatria del disturbo “psicotico condiviso”, altrimenti conosciuta come “follia a due”, che, come si legge nella sentenza: “inducevano questa Corte a disporre una perizia psichiatrica affidando il relativo incarico al dottor Giuseppe Sciaudone”.

Come è noto il professionista nel corso dell’udienza del 22 febbraio 2023 riferiva che entrambi fossero capaci di intendere e volere al momento del fatto. Per Limata è stato diagnosticato un disturbo di personalità di tipo antisociale. Escluso da parte del perito nominato dalla corte di Assise che potesse esserci un disturbo psicotico condiviso la cosiddetta follia a due, giacché non esisteva nessun disturbo psicotico”.

Conclusioni a cui era giunta anche la consulente della Procura Raffaella Perrella. Come è noto il metodo utilizzato da Sciaudone era stato contestato dai periti della difesa. Basato solo su documentazione e incontri con i “periziandi” non aveva infatti registrato la somministrazione di test particolari. Per il presidente Scarlato questo gap è superato grazie al fatto che “la scelta del perito operata da questa corte è ricaduta su un professionista, già Dirigente del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASL Napoli 3 Sud e docente del Master di Criminologia dell’Università di Firenze, ma soprattutto che vanta nel settore della psichiatria forense una esperienza di quarant’anni e che per il ruolo ricoperto di perito del giudice assicura sicuramente una maggiore affidabilità in termini di indipendenza di giudizio”. Per cui secondo il Tribunale di Avellino, tutte le diverse valutazioni proposte sulla vicenda erano superate.

PERCHE’ LE ATTENUANTI GENERICHE
Ultimo aspetto legato alla sentenza è quello relativo alla concessione delle attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti ed un sistema sanzionatorio che ha preso in considerazione rispetto al tema della imputabilità anche le condizioni di “fragilità” degli imputati: “Tali concessioni – scrive Scarlato- si giustificano non solo per l’età degli stessi, quanto piuttosto per la condizione di fragilità di entrambi, quale conseguenza del vissuto di ciascuno, condizione che sebbene non abbia esplicato alcun incidente nel giudizio relativo alla imputabilità, può invece essere valorizzata in punta di trattamento sanzionatorio. Elena nel ricordo della madre, era una ragazza molto introversa, chiusa, una ragazza con cui era difficile trovare un canale di comunicazione; a scuola ha anche avuto problemi di bullismo che l’avevano indotta a cambiare classe”.

Ora si dovrà attendere se ci sarà (quasi certo) un processo di secondo grado per i due “fidanzatini killer”.