Il gioco della democrazia: le primarie oggi

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(di Rodolfo Salzarulo) Dal giorno in cui si sono tenute le primarie “per Prodi” si è aperto un confronto assai singolare, che molto somiglia al dibattito sul maggioritario degli inizi degli anni ’90. Nelle concitazioni di quegli anni veniva sollevato un problema, che potremmo definire di politica strutturale, e si stabiliva un percorso aureo su cui dimensionare l’opzione della scelta.
Il problema era così argomentato: i partiti hanno occupato lo Stato; essi impongono persone scelte secondo criteri opinabili, e comunque non trasparenti, in ogni ambito della sfera pubblica. In sostanza si prospettava la necessità di sottrarre alla “partitocrazia famelica” il potere di selezione della classe dirigente. Veniva offerto un raffronto luminoso con le democrazie anglosassoni in cui, si diceva, il sistema uninominale ha sempre garantito trasparenza e in cui il “popolo sovrano” detiene la possibilità esclusiva di scegliere i propri rappresentanti attraverso il voto diretto.
Posta la questione in quei termini, detto che si sarebbe ridimensionato lo strapotere dei partiti e data la volontà di restituire al popolo tutta intera la sua sovranità, il popolo scelse: al referendum ci fu il pronunciamento straripante, che impose di adottare il sistema elettorale di tipo uninominale. La riflessione del legislatore fu appena un poco più sapientemente informata dalla differenza di cultura e tradizioni politiche dell’Italia rispetto ai paesi anglosassoni: ne venne fuori il “mattarellum” che, in qualche modo, recuperò le ragioni profonde del sistema proporzionale attraverso la quota del 25% , pur con lo sbarramento del 4%.
Alla verifica dei fatti si scoprì che il popolo sovrano si riduceva semplicemente a riscaldare le pietanze preparate dalle segreterie dei partiti. E questo proprio nel momento in cui i partiti si andavano svuotando di contenuti e di reale rappresentatività dei territori. Meno ancora erano presenti nelle loro istanze i bisogni reali della gente, se non per il tramite di sondaggi demoscopici: stavamo cominciando ad apprendere le forme della democrazia virtuale, dalla quale saremmo passati bruscamente a quella multimediale, che in Italia avrebbe assunto le forme di Mediaset.
Intanto, in violazione dell’assioma per cui l’uninominale avrebbe ridotto drasticamente la quantità di partiti, portandola tendenzialmente a due, altri e molti partiti sorgevano: in quegli anni, per fondare un partito nazionale era sufficiente una piccola rete di conoscenze nella “politica che conta”, un fax, una segreteria telefonica con il prefisso di Roma e una certa quantità di denaro. In barba alla partitocrazia da prima repubblica, che almeno aveva le sezioni territoriali!
Il dibattito di oggi sulle primarie, che ripete gli echi di quella campagna, è riassumibile in questi termini:
1) il popolo chiede di partecipare e di scegliere direttamente;
2) la società civile può far emergere dal proprio seno le nuove risorse di cui la politica ha bisogno;
3) è ora di porre fine alle logiche spartitorie operate dalle segreterie dei partiti, che impediscono il rinnovamento della classe dirigente.
Vediamo la prima questione. Il popolo, quando sceglie con il voto, necessariamente sceglie nell’ambito di una rosa di nomi. Questa rosa dovrà essere proposta da qualcuno. Alle elezioni sono state, e sono, le segreterie dei partiti a fare la sintesi di criteri e di nomi, offerti da discussioni interne ad organi dirigenti: non sempre i nomi emergono da gerarchie di partito che, in ogni caso, sono il frutto di atti di democrazia interna.
Oggi, peraltro, stiamo assistendo ad una forte crescita delle adesioni a più di uno dei partiti, almeno del centro sinistra e questo, allargando la platea di chi contribuisce ad operare le scelte, finisce anche per garantire più forte espressione democratica alle scelte stesse. Se, come accade, si rifiuta il ruolo dei partiti, ritenuti prevaricatori della “genuina volontà popolare”, allora bisognerà cercare altri che indichino la rosa dei nomi su cui scegliere. La peggiore delle risposte sarebbe che nessuno scelga, che i nomi siano semplicemente presentati da un certo numero di “persone” e che, poi, con le primarie, il popolo sovrano operi la scelta vera. Una prima riflessione è offerta dalle primarie che fin qui si sono tenute: Vendola, Prodi, Borsellino. In nessuno dei casi la scelta dei nomi è emersa “motu proprio”, dal cuore del popolo: nei tre casi sono state precise istanze di partito ad individuare le candidature. In Puglia c’è stata una forma di rifiuto dell’accordo raggiunto nella coalizione, in cui si era tenuto conto degli equilibri tra le diverse realtà regionali. Quel rifiuto ha prodotto in ultima istanza un risultato figlio di coalizioni “contro”, prodottesi trasversalmente in seno a tutti i partiti, e di regole incerte. Nichi Vendola non è, infatti, lo sconosciuto uomo del popolo, ma un rigoroso uomo di partito e, date le condizioni, è stato prima scelto e poi eletto, con un forte sostegno degli stessi partiti che si vorrebbe restino estranei al meccanismo. Alle primarie per il candidato premier Prodi è stato indicato, e fatto votare, da quattro partiti della coalizione ed ha avuto l’affermazione che tutti conosciamo; sono stati indicati ancora: Bertinotti dal PRC, Mastella dall’Udeur, Pecoraro Scanio dai Verdi, Di Pietro dall’Italia dei Valori. Costoro, con alle spalle più o meno robuste organizzazioni di partito, hanno ottenuto percentuali rispettabili. I candidati offerti “dal cuore del popolo” di centro sinistra, Panzino e Scalfarotto, hanno riportato percentuali non rilevanti.
C’è stata la Sicilia. Qui la lettura è ancora più chiara. Una frattura all’interno dei partiti siciliani e, per alcuni di essi, tra le rappresentanze siciliane e le rispettive dirigenze nazionali, ha portato alla contrapposizione di un candidato diverso da quello concordato: Rita Borsellino non è, in ogni caso, un genuino prodotto popolare. In tutti questi anni ha condotto una battaglia notevole, e lodevole, contro un certo modo di intendere la politica, ha prodotto forti aggregazioni contro la mafia e tutto quello che rappresenta: lei non è, bensì, una persona del popolo, non un’asettica esponente della società ma una persona che conosce bene le strutture di partito e che con alcune di esse in particolare, ha collaborato strettamente in tutti questi anni.
Con questo siamo al secondo problema: come emergono dalla società civile le risorse utili alla politica. Conoscevamo la strada dei partiti che si è interrotta tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90, e ha dato vita alla nobile “stagione dei sindaci”. Stiamo imparando a conoscere nuovi percorsi che dalla società conducono ai partiti, meno ideologici. I nuovi partiti, a struttura leggera, riteniamo possano continuare a garantire una comunicazione tra i bisogni dei territori e le gestioni politiche o, se vogliamo essere più diretti, il potere. In questi nuovi ambiti si sta provando a ricomporre il tessuto connettivo della rappresentanza democratica in grado di sostenere, nel tempo tra una consultazione elettorale e quella successiva, la rappresentanza dei bisogni e degli interessi, mediando tra le diverse componenti della dimensione sociale. Da questo punto di vista le primarie sono un vero elemento irrazionale: avrebbero ragione di essere se non ci fossero partiti oppure, con regole certe, se fossimo in un sistema uninominale puro, pur in presenza di una pluralità di partiti e di istanze politiche. Pensiamo che, invece, le primarie si pongano in forte contraddizione proprio con i meccanismi della democrazia rappresentativa: tutto si dovrebbe ridurre a semplici comitati elettorali, utili alla mobilitazione nella scadenza elettorale e poi svuotati di reale capacità di incidere nel tempo. Come logica conseguenza, la continuità tra i comitati elettorali e la gestione del potere sarebbe demandata a lobbies, apparati della società civile, economicamente rilevanti, finalizzati alla pressione politica in itinere e in grado di garantire nel tempo a gruppi di eletti a vari livelli un sostegno anche economico, riproducibile in campagne elettorali successive. E neanche qui si vede troppo il “cuore del popolo”, o la società civile nei suoi alti intenti, ma solo potere economico in grado di mobilitare popolo virtuale. Accanto a questo esiste un’altra possibilità: potrebbero proporsi al “popolo sovrano”, in maniera diretta e senza altre mediazioni, personaggi famosi in quanto tali, che comunque non offrirebbero grandi garanzie allo stesso popolo. Sarebbe stato eletto a Napoli sicuramente Maradona a metà degli anni ’80, e altrove Vanna Marchi. Essi non avrebbero avuto bisogno del supporto di partiti organizzati. Come è stato eletto in California Schwarzenegger.
E veniamo al terzo problema. Sicuramente i metodi di selezione della classe dirigente posti in essere dai partiti hanno subito alcune distorsioni a cavallo degli anni novanta, tali da far insorgere non pochi dubbi sulla rispondenza tra classe dirigente e territori, tra rappresentanze politiche e bisogni rappresentati. Allo stesso modo è chiaro che occorre oggi ricercare nuovi è più dinamici criteri per operare la selezione stessa. L’opzione è netta: i candidati sono individuati o da organismi delegati o direttamente dal popolo. Nel primo caso stiamo optando per i partiti e qui ci sarà da aprire un dibattito sempre più stringente sulle nuove e più agili forme della rappresentanza. Nel secondo caso dobbiamo rinviare a quanto detto prima sulla presunta “spontaneità” dei modi in cui possa emergere o rinnovarsi la classe dirigente di un paese. Berlusconi, per citare un caso emblematico, afferma di essere “sceso in politica” per contrastare i “politici di professione” e per contrapporsi ai partiti tradizionali, lontani dalle domande effettive del popolo. Ha finito, invece, per proporre una legge elettorale che affida totalmente nelle mani dei partiti, e nelle loro espressioni più centrali e ristrette, la scelta della classe dirigente dello Stato! Questa è la logica della lista bloccata che consente all’elettore di scegliere solo la lista, non le persone: nell’Est europeo, vigente l’Unione Sovietica, questo accadeva solo in Bulgaria!
Occorre ancora una considerazione. In gran parte a chiedere le primarie non sono uomini di valore benemeriti ma ignoti, non persone genericamente “per bene”, non efficienti amministratori di periferia. Alfieri di questa battaglia di democrazia sono in gran parte nomi famosi dell’isola della politica, che hanno già fama da vendere, ma non forza sufficiente per imporsi in tutte le stagioni. Sono in gran parte uomini di partito, a cui la fortuna perviene proprio dai meccanismi opachi di quegli anni ottanta/novanta e che, godendo di una buona rendita di posizione politica, hanno potuto salire sempre su tutti i treni in transito, senza che nella competizione potessero entrare anche “minori” o uomini della periferia politica. Oggi, in presenza di una crescita dei partiti e di una rinnovata e più articolata richiesta di protagonismo, adeguato alla ricchezza che emerge dai territori, i “Maradona” della politica invocano le primarie, il ricorso al popolo sovrano, sapendo che nessun meritevole uomo di oscura periferia potrebbe competere con la loro fama. Pretendono, costoro, di uccidere i partiti, senza rendersi conto che resterebbero orfani.
E’ evidente che esista la necessità di rivedere i meccanismi della selezione, che i partiti si stiano rinnovando con troppa lentezza ed anche con qualche incertezza, che il passato con le sue distorsioni rischia sempre di ritornare. Il plebiscito, però, non è risultato essere l’espressione più alta della democrazia! Mai. Non lo è alcuna delle forme del populismo! Speriamo che, anche per questo, emerga un legislatore più accorto e meno interessato di Berlusconi! Perché, se è vero che i problemi politici non si risolvono adottando scelte tecniche, è vero che aspetti formali condizionano i modi in cui la politica può affrontare i problemi di sua competenza.

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