Avellino – ‘Nuovi poveri’, è questa una delle espressioni che la crisi economica ha impoosto al lessico dell’informazione. Ed effettivamente il numero di ‘quelli che non arrivano alla fine del mese’ aumenta quotidianamente. Tra i tanti soggetti del terzo settore che monitorano la situazione, c’è la Caritas che in ogni città prova ad assistere e aiutare gli ultimi. Carlo Mele è il vicedirettore della Caritas Avellino.
Signor Mele, chi sono i nuovi poveri di Avellino e in che modo la struttura di cui fa parte li sostiene?
“Abbiamo messo in campo un progetto ecclesiale che parte dall’ascolto dei poveri attraverso quattro centri: lo Zaccheo, Babele per gli immigrati, il Barabba presso la casa circondariale e I Care per i senza fissa dimora. L’operatore ascolta ed entra in relazione con l’utente, provando ad orientarlo verso i servizi territoriali presenti. Questo perché non va mai dimenticato che la Chiesa non ha la responsabilità dei poveri, per questo cerchiamo sempre di includere le istituzioni nelle nostre iniziative”.
Per anni ad Avellino la Mensa dei Poveri di via Morelli e Silvati ha assicurato accoglienza e pasti caldi a senza tetto, immigrati, mendicanti. Con il dilagare della crisi e della conseguente disoccupazione, è cambiata la tipologia di persone assistite in mensa?
“Certo. La lettura dei dati raccolti dai nostri centri è allarmante: c’è un’impennata del 50% della povertà. I cosiddetti nuovi poveri non vengono catalogati nella categoria dei poveri ‘normali’. Parliamo di persone che hanno avuto tenori di vita medio – alti e che si sono ritrovati da un giorno all’altro senza lavoro, o di giovani coppie che hanno dovuto rinunciare al loro progetto di vita”.
Drammi sociali…
“Innanzitutto drammi familiari: sono aumentate, ad esempio, consistentemente le separazioni. L’aiuto materiale spesso è insufficiente, c’è bisogno di personale competente capace di assistere queste famiglie anche da un punto di vista psicologico”.
Chi si rivolge alle vostre strutture per chiedere aiuto?
“Le donne, principalmente le donne, a riprova del fatto che i nostri sono nuclei familiari a forte matrice matriarcale. Sono soprattutto loro a percepire in anticipo gli effetti che possono scaturire da un’improvvisa situazione di indigenza, come ad esempio scoramento e depressione soprattutto nei giovani”.
Ritornando per un attimo ai poveri ‘tradizionali’, in città sono sempre di più i bambini che chiedono l’elemosina. Sembra che la questione riguardi poco le istituzioni…
“L’accattonaggio ad Avellino c’è sempre stato, solo che prima era un fenomeno ristretto prevalentemente alla domenica o ai giorni di festa. Ora si nota sempre di più perché buona parte di questi gruppi, soprattutto di etnia rom, si sono strutturalmente stanziati nell’hinterland avellinese. Il problema è che non si sta creando il supporto necessario soprattutto per i minori. In materia la normativa è chiara: i bambini in mezzo alla strada non ci devono stare. Le istituzioni preposte devono intervenire. Don Renzulli dice che non bisogna dare l’elemosina ai bimbi perché questo significa pagare la loro schiavitù”.
Domani ricorre la XIII° giornata della Colletta alimentare; lo scorso anno furono raccolte ben 9mila tonnellate di cibo, cifre sconcertanti?
“Noi siamo inseriti in questo discorso con il Banco Alimentare a cui fanno riferimento ben 350 famiglie della nostra diocesi. La gente è molto generosa e ognuno dà quel che può. Ma non dimentichiamo che stiamo parlando di generi alimentari. Nel dopoguerra lo Stato garantiva con l’Eca (Ente comunale per l’assistenza ndr.) i beni di prima necessità. Oggi in Italia questo è garantito solo dal terzo settore. Abbiamo fatto un passo indietro notevole e questo deve farci riflettere”.
Le istituzioni devono tornare a farsi carico di diritti che credevamo assodati?
“Esatto. Bisogna rendere visibili punti di riferimento per ottenere diritti di cittadinanza che evidentemente non sono scontati. Si è cittadini sempre, non solo quando ci sono le elezioni. I diritti non vanno elemosinati, devono essere acquisiti”. (di Rossella Fierro)