Nell’ambito degli incontri offerti dall’associazione ‘Luca Coscioni’, si è svolto oggi presso la sede del quotidiano OttoPagine un meeting con la signora Mina Welby, vedova di Piergiorgio Welby che attraverso la sua storia ha commosso tutti gli italiani e forse ha cambiato il modo di vedere le cose e ha aperto uno spiraglio verso quella parola che per l’Italia e la maggior parte del suo popolo rappresenta un tabù. Parliamo di ‘eutanasia’, dal greco ευθανασία, composta da ευ-, bene e θανατος, morte. Buona morte, che consiste nel procurare il decesso nel modo più rapido, ma indolore, per un essere umano affetto da una malattia inguaribile. Concetto valido per tutti quei malati terminali che non hanno più nulla da chiedere alla vita e che non hanno più nulla da dare, ma che desiderano solo mettere fine alle loro sofferenze. Di questo e di tanto altro ha dissertato Mina Welby, cercando di spiegare le differenze con gli altri paesi, come funziona in Italia il sistema sanitario e cosa andrebbe migliorato. Ma senza dubbio il tema più importante è stato quello sull’eutanasia. “Piergiorgio non ha rifiutato la vita, ma ha accettato la morte”. Queste sono le prime parole in apparenza crude, ma che hanno ampiamente rappresentato la volontà di un uomo che viveva solo perché aveva accettato di sottoporsi ad un trattamento, (Welby respirava grazie all’ausilio di un ventilatore polmonare Eole3XO e si nutriva di un alimento artificiale, il Pulmocare, e altri alimenti semiliquidi e parlava con l’ausilio di un computer e di un software) che gli dava la possibilità di prolungare la sua esistenza ma non certo la possibilità di tornare a ‘vivere’. Nelle sue condizioni ci sono state, ci sono e ci saranno tante persone che desiderano mettere fine alle proprie sofferenze attraverso una iniezione o staccando la presa. Ma in Italia questo non è possibile, a differenza di quanto avviene in Francia ed in Olanda, in Italia è reato. Chi lo fa è considerato suicida, chi lo aiuta un omicida. “Eppure – esclama la Welby – in Italia l’articolo 32 della Costituzione recita: ‘Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana’. Quindi c’è la possibilità, da parte di chi ha accettato le cure, di rifiutarsi di portarle avanti”. Forse il vero problema è che in Italia questo concetto viene poco preso in considerazione anche per via della forza della chiesa e quindi del Vaticano. Non è un caso che Welby non abbia avuto la possibilità di ricevere un funerale come sarebbe stato giusto. “La religione in Italia pesa – dichiara Mina Welby – ha una sua forza. A mio marito non sono stati concessi i funerali forse perché è venuto allo scoperto, richiedendo pubblicamente una legge per l’eutanasia. Io personalmente ritengo che se le terapie non producono alcun effetto è giusto che il malato scelga di non volere più soffrire”. Un argomento senza dubbio molto delicato e a cui si dà poco adito finché non ci si ritrova a convivere direttamente con un malato terminale. Non poter aiutare una persona che soffre, sapendo che l’unico desiderio è quello di lasciarsi andare è doloroso e straziante. Ma in quale modo alternativo si può aiutare un malato terminale? “Innanzitutto attraverso un sistema sanitario efficiente e con delle strutture in grado di poter sostenere le persone disabili. Magari aumentando anche il numero del personale infermieristico e riducendo in parte i costi. Migliorando le strutture. Al nord ci sono dei complessi validi dove viene portata avanti la così detta ‘terapia del dolore’, al sud invece mancano”. Ma Welby oltre a portare avanti la battaglia per l’eutanasia si è battuto anche perché fosse concesso il voto a casa per quei disabili che non potessero essere trasportati. Oggi grazie al suo contributo hanno la possibilità di votare tutti quei degenti che sono attaccati ad un respiratore. “Questa – afferma la signora Mina – è stata una piccola vittoria di mio marito, ma sarebbe giusto che tutti i disabili avessero la possibilità di votare a casa.” In fine Mina Welby ricorda alcune delle ultime parole del marito: “Piergiorgio mi disse che dalla vita aveva avuto tutto. Io sono stata felice, ciò significa che io avevo fatto tutto per lui. Adesso porto avanti la sua battaglia, la battaglia di tutti quei malati terminali che se potessero deciderebbero di staccare la spina del respiratore, di terminare la terapia del dolore, di spegnere la luce e porre fine a tutte le loro sofferenze. Quella non è vita, ma solo un triste epilogo”. Da queste parole e da questo incontro si è dedotto che l’Italia deve crescere e che gli italiani devono aprire le loro menti e discutere di argomenti seri, che troppo speso vengono dimenticati per poi essere riportati alla ribalta quando ci sono casi clamorosi. Queste battaglie dovrebbero essere portate avanti con decisione, scontrandosi anche con istituzioni forti.(di Giovanni La Rosa)
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