Mariano Di Cecilia, il fotografo che ama la pellicola.

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Mariano Di Cecilia

Mariano Di Cecilia ha il dono di comporre immagini dai colori brillanti e dal tono fiabesco che costringono lo spettatore a un tuffo nei territori della memoria e della fantasia.

A chi, infatti, le suggestive immagini circensi non richiamano incantati ricordi infantili o evocano il sapore dolce delle fiabe ascoltate prima di dormire?

Nonostante la giovane età, il fotografo arianese ha già al suo attivo la prestigiosa collaborazione con Franco Dragone, uno dei più grandi show-maker del mondo e co-fondatore del Cirque du soleil, che gli ha consentito di girare il mondo e immortalare spettacolari momenti di felliniana suggestione.

Approda alla fotografia attraverso l’esperienza con suo nonno, fotografo dal 1933. Dalle prime esperienze in camera oscura, nei primi anni 90, muove i primi passi nella fotografia di reportage e ritratto, da subito inizia un percorso fatto di progetti personali di ricerca visuale.

Dall’aprile 2013 collabora con Vinicio Capossela, partendo dall’Auditorium Parco della Musica di Roma fino all’evento, nell’agosto 2013, “Sponz Fest”, realizzando il film documentario dall’omonimo titolo.

Da novembre 2013 è impegnato nella realizzazione del film documentario “Aida making of”, commissionato dalla Compagnia Franco Dragone entertainment group.

Reportage sulla figura del regista e show maker Franco Dragone, durante le fasi di creazione dell’Opera “Aida” di Giuseppe Verdi in scena dal 5 al 17 dicemre 2013 presso il teatro San Carlo di Napoli.

Attualmente, oltre a portare avanti i diversi progetti personali, è impegnato con la Compagnia di Franco Dragone come film-maker e fotografo nella documentazione dello spettacolo “Dai Show” in scena presso Xishuangbanna nel sud della Cina.

Mariano Di Cecilia, com’è nata la passione per la fotografia? Quali sono i suoi maestri o le sue fonti d’ispirazione?

Mariano Di Cecilia
Mariano Di Cecilia

“La passione per la fotografia l’ho trovata in casa appena nato, era già lì. Mio nonno, reporter in Africa durante la seconda guerra mondiale e, in seguito, ritrattista e paesaggista, mi affascinava con i suoi esperimenti in camera oscura. Conservo ancora le preziose maschere di un “photoshop ante litteram”. Già allora mi accorgevo, tuttavia, che ero catturato dai volti, le espressioni, le ambientazioni che mi disarmano ancora adesso per quanto ricche di dettagli narrativi. Scene immerse in una semplicità impossibile da riprodurre se si tenta di costruirla con la mente.

Queste le inconsapevoli ispirazioni, linee guida invisibili che accompagnano l’anima a cercare particolari nascosti, storie che continuamente abbiamo davanti agli occhi, le fermo in un istante, la maggior parte delle volte senza la macchina fotografica”.

Quali sono le tecniche che predilige nella realizzazione dell’immagine?

“Le forme espressive e, di conseguenza, le tecniche che uso sono diverse. Esse seguono principalmente i miei stati d’animo. Capita che la macchina fotografica diventi un’estensione della personalità, per questo uso, quasi esclusivamente, un sistema a telemetro, totalmente manuale con le sole impostazioni di base. La mente interpreta la luce, l’occhio compone e il sentimento muove l’anello di messa a fuoco, tutto qui. Spesso mi capita di prediligere l’uso della pellicola, nei vari formati. Anche questo fa parte di un’esigenza narrativa, è come se anche il frammento di celluloide sul quale è impressa l’immagine raccontasse la storia legata al processo creativo”.

Paesaggio, reportage, ritratto, quali sono le diverse emozioni che le suscitano?

“Nell’approccio ai diversi generi fotografici, semplicemente, cambia il modo di interagire con il soggetto, dal punto di vista pratico. Posso trascorrere un’ora con un albero prima di fotografarlo, osservare una scena che evolve e si racconta da sola, oppure, condizionando luci e soggetti, costruire una visione che nasce solo nella mente. Il filo conduttore, d’altro canto, è sempre lo stesso: ogni immagine ha un prima e un dopo, traducendo le sensazioni dell’autore in suggerimenti narrativi per chi la osserva”.

Un episodio divertente e uno commovente dal suo album dei ricordi fotografici.

“Mi trovavo a Xishuangbanna, a sud della Cina, per documentare uno degli spettacoli creati dal regista italo-belga Franco Dragone. Durante un’uscita serale dedicata alla street photography, una scena cattura la mia attenzione: un cuoco di strada immerso nei fumi di un’enorme grigliata, vedevo a malapena il suo volto illuminato da una timida lampadina appesa all’altezza della sua fronte. Penso ad un ritratto, mi faccio capire con un cenno e lui subito in posa, fiero del suo ruolo. Dal buio intorno a lui, all’improvviso, spunta la moglie inferocita dai clienti in attesa e comincia a dispensare sonanti ceffoni al malcapitato! ..A quel punto rinuncio alla foto per solidarietà. Entro nel carcere di Poggioreale, a Napoli, per documentare l’intervento dell’artista irpino Luca Pugliese. Impossibile descrivere le sensazioni che provo nel sentire l’eco delle urla nei corridoi, il tintinnio del ferro, gli odori che penetrano nello stomaco, i volti invecchiati e spavaldi di chi ha vissuto per cento anni pur avendone solo trenta. Poi arriva ciò che non mi aspetto: l’esplosione di una gioia latente, gli abbracci ed i ringraziamenti per aver regalato un momento di “vita possibile” a chi non ne ha ancora avuto l’opportunità. Anche queste sono fotografie rimarranno nella mente e nell’anima”.

Quali sono le mostre o le pubblicazioni più importanti cui ha partecipato?

“Ricordo con sentimento particolare “La Staffetta”, mostra prese il titolo da un racconto della  scrittrice irpina Emanuela Sica. Avevo delle visioni, storie che raccontai per immagini in occasione degli eventi che ogni anno prendono vita nel paese di Cairano. Dopo aver confrontato le mie idee con il testo del racconto, trovammo degli intrecci che resero possibile una sorta di performance teatrale, coinvolgendo, tra l’altro, la mia compagna di vita che prestò la voce per la narrazione. Spero di avere l’opportunità di ripresentarla in un prossimo futuro”.

Oggi la fotografia è ormai completamente digitale, i tempi romantici dell’attesa in camera oscura sono quasi archeologia, ci può essere lo stesso calore nelle immagini, la stessa emozione e possibilità di lavorare i supporti come si faceva un tempo con i chimici e la carta? 

“Uso ancora le macchine a pellicola e tutto ciò che ne consegue come forma espressiva. Cambia completamente, rispetto al digitale, il modo di rapportarsi con l’istante in cui si scatta ma non credo che prevalga un metodo sull’altro, tutto è correlato alla sensibilità individuale. E’, tuttavia, da considerare un ritorno compulsivo alla chimica, soprattutto nel Nord Europa e negli Stati Uniti, che muove un ragionamento sull’utilizzo del tempo, la velocità offerta dalle tecnologie è a misura d’uomo? Pensiamoci”.

A suo avviso c’è abbastanza spazio per la fotografia nella nostra città? 

“Avverto un grande fermento artistico, spesso desonorizzato dalla mancanza di alimentazione. Ogni attività culturale giova alla capacità di raccontarsi, vivendo in provincia trovo che sia una vera impresa visitare mostre o immergersi in ambienti nei quali avverti una sana contaminazione. Da noi queste opportunità vanno pensate e create. Non entro in questioni politiche, è solo uno spunto di riflessione”.

Quali sono gli altri fotografi irpini di cui apprezza il lavoro, a suo avviso c’è una “scuola avellinese” di fotografia? Possiamo eventualmente ricostruirne un po’ la storia?

“Parlare di scuola riferendosi ad un luogo restituisce, a mio avviso, un senso di chiusura. E’ evidente la presenza, nella nostra terra, di tanti artisti che meriterebbero di emergere ma mi sento inevitabilmente distante dal flusso artistico avellinese. Il fatto di non vivere la città, personalmente intendo, limita molto la possibilità di entrare a contatto e condividere le sensazioni con chi si esprime attraverso la fotografia, in questo caso. Questo disagio non è causato da una personale mancanza di interesse, piuttosto dal bisogno di interagire al di là dei mezzi social che, da un lato offrono visibilità immediata, dall’altro rendono intangibili le sensazioni più intime ed essenziali per comprendere un lavoro”.

Giovani e fotografia, se ne vedono tanti in giro con le reflex, c’è desiderio di imparare la tecnica oppure prevale l’approccio “istintivo” all’immagine?

“Oggi basta molto meno di una reflex per realizzare immagini, penso che non ci siano più i “non-fotografi”. Tuttavia, trovo che questo non rappresenti la fine di questa arte, anzi, paragono questa diffusione totale all’uso della scrittura: ognuno ha una penna ed è in grado di scrivere in modo più o meno comprensibile. Pochi, alla fine, scrivono vere poesie. Più di tecnica o istinto prevale il bisogno di approvazione, mi rammarica vedere spunti di creatività imbrigliati in filtri mainstream. Auspico una presa di coscienza, ragionando su quanto siamo influenzati dai pareri e dai “gusti estetici” altrui e quanto c’è di noi stessi nelle immagini che produciamo”.

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