Il pubblico avellinese del Laceno d’Oro applaude e promuove l’anteprima di “Se chiudo gli occhi non sono più qui”, il film di Vittorio Moroni proiettato ieri sera al Movieplex di Mercogliano. Una pellicola che, nella sua durezza, riesce ad aprire uno squarcio sulle possibilità che, a chiunque, il destino può riservare. A fine proiezione è stato il sindaco di Avellino, Paolo Foti, a consegnare all’autore il riconoscimento che il Laceno d’Oro ha tributato a Vittorio Moroni. A sorpresa, poi, è giunta la telefonata in sala del protagonista del film, Beppe Fiorello, che ha salutato il pubblico sottolineando il suo forte legame con la città di Avellino, che lo ha visto di recente protagonista sul palcoscenico del teatro “Gesualdo” con il suo fortunato “Penso che un sogno così”. Quella odierna sarà un’altra giornata particolarmente intensa. Si comincia alle 19 con la proiezione di Wolf di Claudio Giovannesi per proseguire, alle 20.30, con un’altra anteprima nazionale: Take five di Guido Lombardi, che sarà presente insieme al produttore Gaetano Di Vaio al cinema Panopticon del carcere borbonico. In chiusura di giornata (carcere borbonico, ore 22.30), il Laceno d’Oro rende omaggio a William Seward Burroughs (1914-1997) nel centenario della nascita. “El hombre invisible” (così soprannominato a Tangeri, trasferitosi nel 1957, per la sua straordinaria capacità d’adattarsi ovunque) fu scrittore, alchimista delle parole, talent, visionario, maestro intergenerazionale, istigatore di futuri e possibilità. “El hombre invisible” vuol essere un’occasione non solo di ascolto e visione a partire da frammenti poetici e filmici dall’opera vasta di Burroughs, ma anche uno spazio dinamico ed innovativo per ritrovarne le tracce composite all’interno della nostra contemporaneità. Nella continua ricerca che ha accompagnato l’esperienza artistica di William S. Borroughs, rientra anche la produzione video-filmica: non in veste di regista, ma di sceneggiatore (oltre che interprete), quasi a sottolineare la sua fondamentale matrice d’appartenenza, la letteratura. Una matrice che si mantiene nell’approccio anti-narrativo e frammentato, alla ricerca di continue associazioni, e che esplora anche attraverso altri media la tecnica del cut-up, un procedimento di matrice dadaista che consiste nel tagliare e scompaginare messaggi per crearne di nuovi. Il risultato è una serie di corti e mediometraggi, per la maggior parte realizzati in bianco e nero, spesso utilizzando in un’inesauribile rieditazione di spezzoni degli stessi filmati. Così Towers Open Fire (del 1963) e The Cut-Ups (del 1966) sono accomunate, oltre che da un montaggio video frenetico, da un audio campionato e ossessivo, dove parole e suoni, cos“ come le immagini, suggeriscono aree semantiche senza definire significati, né, tantomeno, tracciare linee narrative riconoscibili. Alcune riprese dei primi due corti vengono montate con un ritmo più disteso, in qualche modo “compensato” dall’audio distorto e dall’applicazione di filtri, sovrapposizioni e specularizzazioni. Un discorso a parte merita infine Bill & Tony (1972), in cui Burroughs e Balch si cimentano in uno scambio d’intentità dai risvolti beckettiani. Tutti i film sembrano richiamare stati di percezione alterati da sostanze stupefacenti, in cui ricorrono ossessivamente simboli allusivi di realtà molteplici e profonde: in particolare la Dreamachine (realizzata da Gysin e da Ian Sommerville, simile ad uno stroboscopico zootropio Ðallusione al cinema- o ad un primitivo calcolatore allusione al padre di Burroghs, inventore della macchina calcolatrice-), le scritture ideogrammatiche o non occidentali (geroglifici, scrittura cinese e araba), e l’insistenza sul doppio, sulla stratificazione e sul numero quattro. Dall’apparente caoticità emerge quell’”ampliamento della consapevolezza” che, secondo Burroughs, il messaggio letterario e artistico in generale deve trasmettere: il cut-up, come afferma lo stesso autore, si avvicina ai processi della percezione, impossibili da riprodurre a parole, ma riconducibili alla pittura o ai film. Il concetto del doppio e dell’altro da sè, la messa in discussione dell’identità, sembrano minare le “verità” omogeneizzate e l’univocità definitoria su cui si basa il potere costituito.
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