La rampa in acciaio che collega piazza Castello con il cosiddetto “pianoro sud” è diventata un elemento distintivo sulle macerie dell’antico maniero feudale.
Tra i ruderi e le erbacce cresciute nel corso degli anni, quella lingua argentata che sale su fino a quella porzione di castello che affaccia su corso Umberto, ha assunto l’aspetto di una sentinella solitaria e irreprensibile a guardia degli scempi perpetrati su un angolo di Avellino ancora da restituire alla città.
Eppure, quella rampa di accesso, che a guardarla bene ricorda i ponti levatoi del passato, quelli che si stendevano sul Rio Cupo e il Rio Nero, è spia di una filosofia, di una cura e di una passione che riavvolge il nastro della memoria a 15 anni fa.
«Il nostro progetto nasce da molto lontano, l’incarico ci fu dato nel 2004 dall’allora sindaco Antonio Di Nunno che da anni si confrontava con il mondo degli architetti, e nello specifico con mio padre, per riportare in auge una delle piazza fondative di Avellino – ricorda l’architetto Marco Colucci che insieme al suo Studio prese in carico i lavori per la rampa di collegamento tra la piazza e il pianoro costati poco più di 350 mila euro – Bisogna ripartire da quella stagione, da quelle intuizioni e da quell’amore per la bellezza se si vuole salvare piazza Castello e restituire alla città uno dei pochi monumenti caratterizzanti, un attrattore capace di riportare l’attenzione su tutto il centro storico».
La rampa, inizialmente doveva essere rivestita in pietra, ma gli scavi archeologici che partirono nei primi anni del 2000, portarono alla luce molte preesistenze che ribaltarono il punto di vista dei progettisti.
«L’amministrazione Di Nunno, insieme alle soprintendenze, volevano che gli scavi fossero resi fruibili. Per questa ragione si immaginò una scala in acciaio con una sottostruttura molto esile che avrebbe mantenuto gli scavi a vista permettendo a tutti di poterne goderne liberamente – spiega Colucci – In questo modo si passò dalla pietra all’acciaio in modo da consentire una serie di operazioni maggiormente in linea con i cunicoli longobardi e la vecchia cappella rinvenuti sul pianoro sud. Inoltre, un elemento in acciaio come la rampa comporta costi ridotti, minore manutenzione, la possibilità di smontarlo e recuperarlo riciclando il materiale e inoltre non imprime nessuna violenza al monumento, nel rispetto di un restauro conservativo. Insomma si è trattato di un intervento reversibile».
Grazie all’intervento di raccordo della rampa, realizzata attraverso i fondi Pica, l’amministrazione comunale riuscì a reperire anche i finanziamenti per la riqualificazione dell’intero Centro storico, interventi appaltati nel 2010 e che ad oggi tengono sotto scacco tutta l’area che da piazza Castello sale fino a piazza Duomo.
Dopo quella grande stagione di studio e di cura del bello, però, si è persa la bussola. Idee poco chiare e intoppi evitabili hanno trasformato il centro antico della città in un cantiere diffuso a cielo aperto.
«Il maniero di piazza Castello è un rudere che non può essere immesso nell’immaginario collettivo al pari dei fortilizi di Gesualdo o Taurasi. Era un presidio militare prima che residenziale. Va manutenuto costantemente mantenendo in luce l’ambiente centrale, le cisterne, i cunicoli che negli anni sono emersi e che adesso stanno scomparendo nuovamente sotto la vegetazione. C’è una storia che va recuperata e un’idea che va perseguita».
L’idea è quella di collegare la piazza al maniero, nonostante le differenze altimetriche di circa 12 metri tra la sede della piazza e le mura interrate del castello.
«La messa in sicurezza ambientale della piazza non deve snaturare il progetto del Pica. Il pericolo c’è e va affrontato. Non è detto che tutti i rinvenimenti debbano essere messi a vista, ma tombare nuovamente quello che è emerso sarebbe un errore. Quello che verrà coperto deve essere individuato dettagliatamente in modo da poterlo ritrovare quando si avrà la possibilità di intervenire nuovamente – conlcude Colucci – Ci vuole un’idea chiara per un manufatto così grande che possa attrarre turisti e portare degli introiti e far arrivare gli studenti di archeologia come immaginato da Di Nunno. La passione di quella stagione va rianimata e messa a servizio della città».