Guarisce dall’Hiv grazie alle cellule staminali, era sieropositivo dal 2003

0
237

Per la seconda volta da quando è stata individuato il virus dell’Hiv, un paziente è stato curato dall’infezione: lo riporta la rivista scientifica Nature. Stando alle informazioni fornite da Nature, un londinese dopo essersi sottoposto ad un trapianto di cellule staminali, pare essere guarito dal virus dell’Aids.

Il primo tentativo di questo tipo fu effettuato su un paziente di Berlino circa dieci anni fa, ma allora la terapia si era rivelata così aggressiva da costringere a sospendere la sperimentazione. Questo genere di trapianti, sottolineano i ricercatori, sono pericolosi e hanno fallito in altri pazienti. Anche in questo caso, nonostante il test risalga a 18 mesi fa, i ricercatori raccomandano la massima prudenza e sottolineano che è troppo presto per parlare di ‘cura’.

L’uomo era sieropositivo dal 2003 e aveva iniziato nel 2012 la terapia antiretrovirale. Nello stesso anno gli era stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin in stato avanzato. Così, oltre alla chemioterapia, nel 2016 ha avuto il trapianto di cellule staminali di un donatore, con una specifica mutazione genetica che le rendeva resistenti al virus dell’Hiv.

Il trapianto ha così cambiato il sistema immunitario del paziente, dandogli la stessa resistenza all’Hiv del donatore. Molte forme di Hiv si servono di un gene, il Ccr5, che viene utilizzato dal virus per entrare nelle cellule da infettare.

Alcune persone però sono portatrici di una particolare mutazione del gene CCR5 che le protegge dall’infezione. Il donatore usato in questo caso aveva due copie di questo gene mutato, ed era quindi resistente al virus. I ricercatori dello University college e dell’Imperial college di Londra, guidati da Ravindra Gupta, hanno fatto sospendere la terapia antiretrovirale al paziente 16 mesi dopo il trapianto, e 18 mesi dopo (quindi a 35 dal trapianto) non hanno traccia del virus nell’uomo. Un risultato che dimostra, secondo gli studiosi, come il primo caso di remissione, quello del cosidetto ‘paziente di Berlino’, non sia stato un’anomalia e offre nuovi elementi per lo sviluppo di una terapia di questo tipo.