Accadde oggi il delitto Pecorelli: quarant’anni senza sapere chi lo ha assassinato. La sorella Rosita riapre il caso

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Era il 20 marzo del 1979 quando Mino Pecorelli direttore e fondatore della rivista OP venne ucciso con quattro colpi di pistola, tre alla schiena e uno in bocca, appena dopo essere salito sulla sua auto parcheggiata in via Orazio, Roma, nel quartiere Prati. Lo ammazzarono sparandogli con una pistola calibro 7.65 munita di silenziatore.

Mino Pecorelli

Processualmente il caso Pecorelli si chiuse il 30 ottobre del 2003 quando la Cassazione assolse definitivamente Giulio Andreotti dall’accusa di essere il mandante dell’agguato. E dunque, chi ha ammazzato Pecorelli?

Per questo motivo, il caso rimane uno di quei misteri italiani irrisolti, un delitto perfetto dai colori torbidi che quarant’anni dopo non ha ancora un colpevole. Ed è per questo che la sorella Rosita ha chiesto di riaprire le indagini sull’omicidio del giornalista, partendo proprio dalla pistola, depositando un’istanza lo scorso 17 gennaio alla procura della Capitale attraverso il suo legale, l’avvocato perugino Walter Biscotti.

il generale Antonio Cornacchia

Dell’omicidio, delle indagini che ne sono seguite e della figura stessa del giornalista, ne abbiamo parlato con il generale dell’Arma dei Carabinieri, Antonio Cornacchia: uno dei protagonisti più importanti e testimone degli Anni di Piombo.

Generale, lei, che un anno prima (9 maggio 1978) arrivò in via Caetani e scoprì il corpo di Aldo Moro, ha indagato su questo caso che forse ai più giovani è totalmente sconosciuto. Chi era Mino Pecorelli?
Giornalista, editore ma anche uomo coraggioso, temerario, non per incoscienza, piuttosto portato a svelare la verità, che nessuno, purtroppo (me compreso), è stato all’altezza o ha voluto recepire, comprendere ed agire di conseguenza. Mino era abilissimo non tanto nell’esaminare archivi e/o enciclopedie universali, o, addirittura, “veline”, di cui poteva disporre, ma nel manovrare, idealmente, la sfera di cristallo. Era abilissimo a manovrarla, leggerla e scrutarla da vero veggente. I contraccolpi, gli strascichi sarebbero stati di ben altra natura da far voltare, anzi, cambiare pagina per offrire alle generazioni future e consegnare alla storia un volto ben diverso della nostra martoriata Italia. Pecorelli era molto abile nel procurarsi notizie ghiotte sul retroscena del mondo politico-economico e finanziario; un modo di scrivere, uno stile il suo tra l’allusivo e il sogghignante.

Pecorelli è dunque un giornalista d’inchiesta e nel 1968 fonda l’agenzia giornalistica OP (Osservatore Politico) che il 20 marzo 1978, un anno prima della sua morte fu trasformata in settimanale.

La sua rivista O.P. per molti è solo un periodico scandalistico. Per altri, invece, uno strumento di ricatto e condizionamento del mondo politico, legato ai Servizi Segreti. Di certo è che il direttore di O.P. è legato ad alcuni corpi dello Stato, (compreso il generale C.A. Dalla Chiesa). La relativa testata diviene ben presto nota, soprattutto a politici, dirigenti statali, militari, agenti dei Servizi Segreti, industriali di un certo spessore, che la studiano per scorgerci indicazioni su cosa che è successo o previsioni su cosa sta per accadere. E’ nel suo stile descrivere con aggressività quadri programmatici leciti e illeciti, anticipare mosse, spiegare fatti strani, svelare piani, individuare fronde e intuire tradimenti. Il che non gli potrà procurare che inimicizie. Indaga sui segreti del delitto Moro e annuncia che il 15 marzo ’78 (coincidenza strana con le Idi di marzo del 44 a.C. data dell’assassinio di Giulio Cesare), accadrà qualcosa di gravissimo in Italia. Sbaglia di un giorno. Il 16 marzo Moro viene sequestrato e la sua scorta trucidata. In seguito si saprà che le BR avevano inizialmente deciso di rapire Moro il 15 marzo. Il suo O.P. pubblica tre lettere inedite (non note neanche agli inquirenti) del leader Dc, spedite dalla prigione del popolo a familiari e amici. Secondo Pecorelli, durante il sequestro Moro, il generale Dalla Chiesa, (nel ’78 ne profetizza la morte, tanto da definirlo Amen), aveva informato il ministro dell’interno Cossiga dell’ubicazione del covo in cui era detenuto. Ma Cossiga “non aveva potuto far nulla perché doveva sentire più in alto, magari sino alla “Loggia massonica di Cristo Re in Paradiso”, per il giornalista la “Loggia Vaticana”. Nel gennaio del 1979 Pecorelli va al carcere di Cuneo proprio con Dalla Chiesa per la ricerca del Memoriale di Aldo Moro. È vicino alla scoperta di inquietanti verità. Teme per la sua stessa vita. È minacciato.

Giulio Andreotti

Pecorelli sa di essere pericoloso…

Su OP compare una nota “A futura memoria”: I nostri lettori e coloro che ci stimano saprebbero riconoscere immediatamente la mano che ha armato chi vorrà torcerci anche solo un capello”. Lancia anche ambigui messaggi. Sin dalle prime battute, le indagini sul suo assassinio, ci inducevano a porre degli interrogativi: Da chi riusciva ad attingere notizie circostanziate, delicate, pericolose su personaggi di certo calibro? Chi, sentendosi minacciato, avrebbe potuto farlo eliminare? Certamente usufruiva delle “veline“ dei Servizi Segreti, correva voce che l’agenzia O.P. fosse del Sid (Servizio Informazione Difesa), diretto allora dal generale Vito Miceli, che Pecorelli difendeva attaccando Andreotti, acerrimo avversario dell’alto ufficiale perché legato ad Aldo Moro. In una intervista pubblicata nel giugno 1993 dal Corriere della Sera, a firma di Paolo Graldi, l’avvocato Gianfranco Rosini rivela: “Ero andato a trovarlo poche ore prima che fosse ucciso. Mino mi aveva confidato che per circa due anni era stato una specie di segretario personale di Andreotti. Io dissi: ‘Un personaggio ambiguo questo Andreotti’. E lui rispose: ‘Uno dei grandi criminali della storia, sto approntando un fascicolo documentatissimo che svelerà chi è veramente Andreotti e quali e quanti siano i suoi crimini”. 

Processi e contro processi risolti in nulla di fatto, finché nel 1992 Tommaso Buscetta, super pentito di mafia, dice che il delitto fu eseguito da Cosa Nostra per conto di Andreotti.

L’iter giudiziario, caratterizzato da innumerevoli tormentose udienze (1° e 2° grado), portò sul banco degli imputati personaggi di spicco del mondo politico, giudiziario e della criminalità comune organizzata: Giulio Andreotti, Claudio Vitalone, Gaetano Badalamenti, Giuseppe Calò, Massimo Carminati, elementi della Banda della Magliana, e si conclude con la piena assoluzione degli imputati. L’omicidio Pecorelli resta senza colpevoli. La Cassazione non ha condiviso la linea dei giudici di Perugia secondo i quali Andreotti negli anni Settanta aveva fatto arrivare alla S.I.R. di Nino Rovelli finanziamenti agevolati e contributi a fondo perduto non solo dal ministero per gli Interventi straordinari per il Mezzogiorno da lui diretto, ma anche dall’istituto di credito Italcasse, poi fallito. In cambio aveva ricevuto da Rovelli cospicue tangenti pagate tramite assegni circolari intestati a nomi di fantasia. I titoli di credito erano poi finiti in mano a esponenti della banda della Magliana, a boss mafiosi legati a Tano Badalamenti, e al patron del Cantagiro Ezio Radaelli. Pecorelli, prima della sua morte, stava per pubblicare sulla sua rivista O.P. le fotocopie delle matrici degli assegni in un servizio dal titolo “Gli assegni del presidente”. Non ha fatto in tempo.

Generale Cornacchia avendo vissuto in prima linea quegli anni, oltre alle indagine mi piacerebbe sapere come la stampa affrontò il caso Pecorelli.

La sua eliminazione fisica venne recepita con distacco, si direbbe freddezza, o quasi. La stampa, screditando la sua figura, è stata piuttosto incline a dipingerlo come ricattatore fallito, forse per ossequio verso quegli ambienti politici contro i quali Pecorelli era solito lanciare strali. Infamia, cattiveria e meschinità gratuite. Se fosse stato ricattatore avrebbe potuto accumulare ingenti somme. Ma alla sua tragica scomparsa disponeva di quel tanto che non riusciva a far fronte alle spese necessarie per la stampa della sua rivista. Non si spiegherebbe l’incontro riservatissimo ma subdolo, macchinoso e temerario del 24 gennaio ’79 al ristorante Famiglia Piemontese nel corso del quale: il Senatore Dc Franco Evangelisti, il Gen. le Donato Lo Prete, Vice Comandante della Guardia di Finanza, Walter Bonino, uomo di fiducia di Nino Rovelli della S.I.R. (Società Industria Resina), i magistrati Claudio Vitalone e Carlo Adriano Testi convincono Mino Pecorelli, (che aveva minacciato la pubblicazione della copertina con gli assegni ad Andreotti), a desistere dagli attacchi contro il ‘Divo’. Il giornalista, rifocillato di quanto necessitasse per la sopravvivenza della sua rivista, ne usciva vittorioso con: una saldatura di un conto di 30 milioni alla tipografia che stampava l’O.P., un contratto pubblicitario per l’O.P. nello stabilimento tipografico di Ciarrapico e una “prebenda” di 15 milioni da parte del Senatore Evangelisti.

 

di Maria Giovanna La Porta