Professionista avellinese alla guida dell’Artigianfidi di Salerno condannato a tre anni di reclusione per peculato: arriva l’annullamento della Cassazione.
Il Consorzio Artigianfidi di Salerno fu costituito sotto forma di Società Cooperativa a responsabilità limitata nel 1988 allo scopo di agevolare i propri consorziati nell’accesso al credito bancario. Il meccanismo mutualistico che animava la società consisteva nella prestazione di garanzie a favore dei consorziati affinché costoro potessero conseguire più agevolmente i finanziamenti richiesti presso gli istituti di credito.
Dal 1998 e fino al 2011, Artigianfidi di Salerno fu anche destinatario dei fondi antiusura, istituiti con la legge n. 108 del 1996 ed erogati dal Ministero dell’Economia e delle Finanze. Con un meccanismo simile a quello precedentemente descritto, i fondi antiusura venivano gestiti dall’Artigianfidi a garanzia degli imprenditori particolarmente esposti al rischio di usura. Secondo la ratio della citata legge, infatti, gli imprenditori più deboli sotto il profilo economico-finanziario, non versando nelle condizioni necessarie ad ottenere un prestito bancario, erano da ritenersi più inclini a ricorrere all’aiuto degli usurai e, per evitare ciò, venivano favoriti con i fondi statali posti a garanzie dei loro prestiti bancari.
Oltre due milioni e mezzo di euro giunsero a titolo di fondi antiusura all’Artigianfidi di Salerno tra il 1998 ed il 2011, affinché fossero gestiti con le finalità suddette e fossero posti a garanzia dei prestiti richiesti dagli imprenditori a rischio di usura.
Nel 2012, tuttavia, il Ministero avviò un’indagine per verificare il corretto impiego del danaro pubblico da parte dell’Artigianfidi di Salerno. La mancanza di documentazione utile ad una corretta ricostruzione delle operazioni finanziate dallo Stato originò l’avvio di un procedimento penale da parte della Procura di Salerno per reati come peculato ed abuso d’ufficio a carico degli amministratori e dei liquidatori di Artigianfidi succedutisi nel tempo.
Le prime condanne giunsero per alcuni di questi già all’udienza preliminare, allorquando le relative posizioni furono definite, per alcuni, con patteggiamento e, per altri, con il giudizio abbreviato.
Anche il professionista avellinese che assunse per ultimo la rappresentanza di Artigianfidi, in qualità di liquidatore, fu coinvolto nel procedimento penale, ma decise di affrontare il processo ordinario e di non ricorrere ad alcun rito alternativo.
Dopo essere stato condannato a tre anni di reclusione, con una confisca per equivalente di oltre 100.000 euro (sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello di Salerno), la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso proposto dall’avv. Fernando Taccone, dello studio Advantis di Avellino, che ha evidenziato come il proprio assistito, in qualità di liquidatore, non avesse mai assunto la qualifica soggettiva di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, richiesta dalla norma quale presupposto soggettivo del reato di peculato: Artigianfidi, infatti, era una società cooperativa a responsabilità limitata ed il suo liquidatore aveva avuto l’unica funzione, di natura strettamente privatistica, di definire i rapporti di debito e di credito della società medesima, senza mai dover gestire il danaro pubblico per gli scopi pubblicistici previsti dalla legge.
Questa stessa tesi aveva già convinto la Corte dei Conti – Sezione Giurisdizionale Campania – che, su eccezione dello stesso avv. Fernando Taccone, aveva escluso il rapporto di servizio pubblico in capo al liquidatore della società ed aveva, perciò, dichiarato il proprio difetto di giurisdizione all’inizio del 2025.
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