Si può governare l’Alto Calore al di fuori delle logiche politiche? A rispondere è Antonello Lenzi, amministratore unico dimissionario dell’ente idrico di Corso Europa, che proprio oggi – alla luce dell’elezione quasi unanime della professoressa Alfonsina De Felice alla guida di ACS – lascia il suo incarico dopo un anno e mezzo.
«Secondo me sì» è la risposta dell’avvocato Lenzi, che spiega: «Io avevo chiesto a chi mi domandava di restare che lo avrei fatto solo in caso di designazione unanime. Non perché mi piacciano i plebisciti, ma perché ritenevo necessario che la politica facesse un passo indietro rispetto all’Alto Calore, almeno in questa stagione di crisi. Se la politica decidesse di restare ai margini della vicenda, soprattutto nell’anno che si apre con tutte le problematiche del concordato, compirebbe un atto di grande responsabilità. Auguro quindi al mio successore di essere in grado di percepire la presenza della politica proprio attraverso la sua marginalità».
Un augurio, dunque, al suo successore anche perché – come ha aggiunto – non ha bisogno dei suoi suggerimenti: «Credo che la professoressa De Felice abbia già ricoperto incarichi ed esperienze importanti, ad esempio come commissario della Camera di Commercio. Probabilmente sarei stato io a dover chiedere consigli a lei, se l’avessi conosciuta prima».
La sua relazione di fine mandato è stata accolta dagli applausi dei sindaci soci: «Mi sono impegnato e mi fa piacere il plauso dei sindaci, ma devo dire che in questo anno e mezzo il loro consenso non è mai mancato. Ho avuto un rapporto di prossimità costante. In fin dei conti il mio bilancio è assolutamente positivo: è stata un’esperienza difficile, faticosa, irta di ostacoli ma al tempo stesso esaltante. Quando sono stato nominato, qualcuno mi disse: “Ma chi te l’ha fatto fare?”. Io ho sempre risposto che un avvocato, di fronte alle difficoltà, non deve mai tirarsi indietro. Mi sono impegnato senza risparmiarmi e ho detto più volte che quest’anno e mezzo all’Alto Calore equivale quasi a cinque anni di professione. Credo che il mio ritorno, a pieno titolo, al Foro di Avellino – da cui, peraltro, non mi ero mai distaccato – avvenga oggi con un bagaglio di esperienze, conoscenze e con un vissuto più solido. Quando un mandato si interrompe precocemente, l’amarezza è naturale ed è giusto che ci sia: non ho esitazione a manifestarla. L’emozione è stata forte e non sono riuscito a contenerla, forse giustamente».
Se potesse tornare indietro, avrebbe fatto qualcosa di diverso? «No, non avrei fatto nulla di diverso, forse solo qualcosa in più. Credo di aver sempre obbedito alla mia coscienza e alla mia linea comportamentale. Tornando indietro, rifarei le stesse scelte. Anche l’assemblea postuma sulle tariffe, in quel momento, era necessaria. Probabilmente avrei dovuto essere più determinato e deciso a fine luglio, non essere accondiscendente sulla manovra tariffaria senza esigere un dibattito tra i sindaci. Questo sì. È un rimprovero che mi faccio, e che mi fa anche mia moglie».
Si è sentito tradito dalla politica? «Qualcuno mi chiese se la politica mi avesse posto delle condizioni. Risposi che sarei andato a fare l’amministratore di Alto Calore senza “regole di ingaggio”. Ero convinto che non ci fossero condizionamenti, e devo dire che per un lungo periodo ho avvertito più solitudine che interferenze. Le vere divisioni sono arrivate quando le questioni sono diventate anche politiche. A quel punto mi resi conto che ogni mia decisione sarebbe stata interpretata come appartenente a un gruppo politico o a un altro. Per questo parlai di logiche distoniche. Io ragionavo con altre categorie, giuste o sbagliate, ma non politiche. Qualcuno mi ha accusato di aver fatto baratti. Ho risposto che a casa mia l’unico “Baratto” è una marca di cioccolata. Mi sono reso conto che il mio ruolo, inizialmente rispettato, rischiava di non essere più giudicato oggettivamente, ma sempre filtrato da logiche politiche».