Il rapporto invertito di giustizia e libertà

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Cedo volentieri la saliera a Rodolfo, più serio e misurato di me. Non sono ispirato in questo inizio anno. Penso che occorre fare un polo di informazione che coinvolga le parti sane e creative della nostra Terra. A presto,Luca.

IL RAPPORTO INVERTITO DI GIUSTIZIA E LIBERTA
di Rodolfo Salzarulo –
Il concetto di libertà, nella storia, ha subito una evoluzione costante ma non lineare: non sempre nuovi spazi si sono aperti per gli individui nel loro agire sociale. Anzi, talvolta si sono chiusi, ed è il caso dei totalitarismi che hanno avocato grandi prerogative allo Stato; o si sono aperti a dismisura, generando forti squilibri, aree di miseria e di impotenza sociale e politica per grandi strati popolari, come nell’estremo delle società segregazioniste, in cui alcune caste più che godere di libertà hanno goduto di arbitrio. Dall’età dei lumi fino ai grandi idealismi, si era teorizzata la relazione tra libertà e giustizia entro il parametro teorico per cui i limiti della libertà di ognuno si debbano fermare sulla soglia delle libertà di ogni altro. Dentro questi termini i diversi Stati hanno elaborato storicamente i sistemi delle regole tese a frenare le esuberanze “naturali” delle soggettività, per tenerle entro ambiti accettabili di una convivenza civile in grado di stabilire l’equilibrio possibile tra “forti e deboli”. Se, però, usciamo dal modello teorico e dall’astratto moralismo, siamo costretti a misurarci con le categorie di classe sociale o di casta o di razza o di quant’altro, nei due secoli passati, ha costituito il fondamento delle analisi sociali. In questi ambiti è chiaro che il contesto sociale non è irrilevante a definire il confine tra la giustizia sociale e la libertà che, in ultima istanza, è rintracciabile nei nessi delle rappresentanze politiche. La vita civile e la politica nell’800 e nel ‘900 sono state edificate sulle grandi esclusioni: dal voto limitato per censo alla rappresentanza per strati sociali, dall’esclusione all’eredità della terra per le donne ai diritti civili negati per alcune razze, dal diritto all’associazione sindacale per gli operai senza mestiere, all’impossibilità di affrancare la terra per il colono, e a quant’altro si potesse escludere, in termini di esercizio di diritti, solo in quanto affermato dal potere storicamente costituito. Nelle comunità della Vecchia Europa la civiltà del diritto e, dunque, della “giustizia” si è evoluta procedendo per “inclusioni” successive ogni volta che, con la forza della mobilitazione degli “esclusi”, o per una qualunque altra necessità congiunturale, gli strati detentori del potere sono stati costretti a riconoscere altre parti sociali e “ricomprenderle”, associandole a sè come portatrici di diritti: il riconoscimento dell’altro è il passo a partire dal quale si configura, alla nostra coscienza, la necessità del dovere, accanto al diritto. Ciascuno di noi “deve”, all’altro riconosciuto, almeno lo stesso spazio che, di norma, reclama per sé: ad ogni diritto corrisponde specularmente un dovere. E’ logico, dunque, che quando “uno” renda effettivo sul piano etico il riconoscimento di un altro, in qualche modo esplicitamente si priva di alcune prerogative, e si assoggetta al comando morale di fermare la propria azione sulla soglia delle prerogative che ha riconosciuto all’altro. In ogni caso la dinamica morale ed etica del riconoscimento reciproco tra individui e strati sociali non è per sè sufficiente a determinare la affermazione di uno Stato: gli Stati hanno sempre fatto ricorso alla coazione, sulla base della garanzia offerta dal monopolio della forza, di qualunque natura essa fosse. E’ evidente che, dunque, ogni società fondata sul diritto sia un ambito disegnato dalla vigenza di regole, le quali costituiscono la cornice entro cui le singole libertà soggettive possano esprimersi, nel rispetto dei vincoli che consentano a chiunque “altro” le opportunità, almeno pari, di azione volte al miglioramento delle condizioni relative di vita. L’altro è “non io” ma, anche, un individuo che si affaccia solo oggi sulla scena della società, anche uno che abbia subito una sventura morale o fisica, anche uno che abbia incapacità fisica o morale di badare a se stesso, anche uno che abbia già dato quanto era nelle sue capacità operative e che ora si è visto venir meno proprio quelle capacità. Questo ordine di “diritti”, al di là della compassione che masse di miserabili possano suscitare, costituiscono oggettivamente un fattore di squilibrio dei parametri della giustizia sociale: mettono a rischio il sistema delle regole; sono destabilizzanti per l’economia, perché escludendo dall’accesso impediscono la partecipazione alla produzione di risorse per larghi strati di popolazione; violano la comune coscienza morale (gli eventi possono volgere al peggio per tutti!); rompono la continuità sociale, perché gli esclusi che si sentono “altri” tendenzialmente si associano “contro”. In questi casi di soggetti, o di strati sociali “indigenti”, ci sono due opzioni possibili: una è affidare gli indigenti al buon cuore delle persone abbienti, formalizzando l’elemosina come strumento di riequilibrio sociale, l’altra è allargare le garanzie dei diritti e, dunque, gli ambiti della giustizia affidandone l’onere allo Stato e alle sue regole. Risulta chiaro che, ad una espansione della sfera dei diritti collettivi, corrisponda una compressione delle libertà individuali e viceversa: dunque la giustizia sociale risulta inversamente proporzionale alla libertà individuale. Per questo ogni richiesta di maggiore libertà individuale, con l’abolizione di vincoli nell’ambito sociale, sottintende un abbassamento del grado di giustizia sociale, in cui è giusto ciò che è sancito dalla legge e, è deduttivo, ad ogni regola violata corrisponde un diritto negato. Ovviamente le leggi possono essere cambiate ma, altresì, è arbitrio da condannare la violazione delle leggi, ancorché ritenute ingiuste. Dagli anni ottanta del secolo scorso, partendo da alcune, a volte pesanti, inadeguatezze degli Stati, le nostre società hanno cominciato a pensare nei termini di una riduzione del “peso dello Stato” come operatore nell’ambito della società. Secondo queste opzioni con l’abolizione delle regole, e delle conseguenti garanzie per tutti, ci sarebbe una spinta dinamica molto più forte da parte delle singole soggettività che, spingendo in avanti le proprie condizioni economiche finirebbero per spingere in avanti il benessere dell’intera società. A quasi trent’anni dagli esperimenti di questo segno, sono riscontrabili le insorgenze di grandi patrimoni personali ma, allo stesso tempo, di grandi sacche di relativa miseria, con consistenti problemi di ordine sociale, quando non di ordine pubblico.

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