Avellino – Ci sta pensando il maltempo di queste ore, forse, a spezzare i rami di acacie dealbalte, più note come mimose, fiore simbolo di una festa, quella delle donne, che oggi conserva solo il suo valore commerciale. L’8 marzo infatti, giornata internazionale della donna celebrata in tutto il mondo occidentale, dovrebbe essere il giorno simbolo delle conquiste sociali, politiche ed economiche dell’universo femminile, ma a guardare i dati Istat sul numero di violenze o quelli relativi alla disoccupazione, ci si rende conto che non c’è nulla da festeggiare. Guidonia, il parco della Caffarella (ndr. su cui sono ancora in corso le indagini), la discoteca di Capodanno, Garlasco, le troppo spesso infernali “mura domestiche”, ci restituiscono una figura di donna perennemente sotto attacco, fragile, impotente, quasi predestinata alla sofferenza con la sola colpa di non essere nata uomo. I dati Istat e del Viminale ci delineano un quadro orrido: lo scorso anno nella nostra civilissima Italia un milione di donne ha subito violenza, fisica o sessuale. Qui da noi dove non ci sono talebani, non c’è guerriglia né poligamia, più di 6 milioni e mezzo di donne ha subito almeno una volta nella vita una qualche forma di violenza. Da noi la violenza è la prima causa di morte o invalidità permanente delle donne tra i 14 e i 50 anni. Una piaga sociale indegna che non si arresta nonostante l’indigestione di notizie a cui quotidianamente i media ci sottopongono, dettando anche l’agenda politica del governo che sembra aver scoperto un vaso di Pandora tenuto chiuso per anni. Si sprecano fiumi di parole sulle modalità dello stupro di gruppo, eminenti esperti affollano i salotti televisivi, sbattono il mostro in prima pagina, invadono l’intimità del dolore della vittima con domande agghiaccianti. “Viviamo un’emergenza” tale che le nostre forze dell’ordine da sole non bastano, ci vogliono le ronde, ci vuole insomma tutto ciò che faccia schizzare l’Auditel. Non c’è spazio né interesse in realtà per la donna, ma per la notizia che fa quando subisce soprusi. L’immaginario collettivo sembra quasi consolato dal fatto che la bestia è appostata di notte nella strada buia; restano infatti gli allarmi lanciati da Telefono Rosa ed altre associazioni riguardo le violenze “casalinghe”, quelle perpetrate dal partner. Storie di degrado mentale, non sempre legati a situazioni sociali difficili, di mariti, compagni o familiari violenti che credono di poter in ogni modo riaffermare il proprio dominio di maschi. Sono migliaia le violenze di questo tipo non denunciate, perché è difficile ammettere di amare uno che ti fa del male, pensi sempre che non lo rifarà, forse è stata anche colpa tua, forse era tornato nervoso dal lavoro. In questi casi si tenta, incosciamente, di trovare mille spiegazioni che finiscono poi per normalizzare situazioni che siamo abituati a definire “tribali” quando accadono in paesi “nemici”. Di queste donne non se ne parla, per loro non vale la logica di “un soldato per ogni bella ragazza”, come se questo potesse servire a prevenire episodi degni di un paese che vive un’involuzione allarmante delle coscienze.
Non solo vittime di uomini abbrutiti, le donne italiane sono le più colpite dal sistema occupazionale. Il Bel Paese è il penultimo in Europa (ndr. dopo di noi solo Malta) in materia di occupazione femminile: solo il 46,3% delle donne riesce a lavorare; 7 milioni in età lavorativa sono fuori dal mercato del lavoro e qui al sud il tasso di occupazione crolla al 34,7%. Situazione paradossale quella che viviamo: abbiamo il tasso di occupazione femminile più basso d’Europa ma quelle che lavorano lo fanno più di tutte le altre. Ogni giorno, compresa la domenica, una donna italiana lavora, tra casa e ufficio, 7 ore e 26 minuti circa, un tempo superiore, appunto, a molti paesi dell’Unione. E questo ovviamente è legato al fatto che la parità dei sessi resta un facile slogan, visto che il 77,7% del lavoro domestico, spesa, lavare, stirare, pulire, accompagnare, grava solo sull’altra metà del cielo. Non resta neanche un minuto da dedicare alla propria persona ed è per questo che il Governo ha intenzione, pare, di innalzare l’età pensionabile a 65 anni per le impiegate nel settore pubblico in modo da evitare ogni tipo di velleità individualistica. Per la serie “Silvia, rimembri ancora…” peccato che Silvia non abbia mai risposto. (di Rossella Fierro)
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