Processo Mori, pm Di Matteo: “Mancino tentò di inquinare le prove”

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Palermo – L’ex capo del Ros Mario Mori e il colonnello Mauro Obinu, imputati di favoreggiamento aggrvato in relazione alla mancata cattura del boss Bernardo Provenzano nei primi anni ’90, non avrebbero agito perchè “collusi” o “per paura” ma perchè “in un determinato e delicato frangente storico, obbedendo ad indirizzi di politica criminale per contrastare le stragi, hanno ritenuto di trovare un rimedio assecondando l’ala più moderata di Cosa Nostra”.
Lo ha sostenuto il Pm Nino Di Matteo, che ha iniziato oggi la sua requisitoria davanti al Tribunale di Palermo, presieduto da Mario Fontana. Gli imputati, ha detto ancora Di Matteo, si sarebbero mossi “… per favorire la fazione riconducibile a Provenzano” e al fine di garantirne “la leadership in Cosa nostra hanno ritenuto necessario garantire il perdurare della sua latitanza”.

Le intercettazioni delle telefonate tra l’ex ministro dell’interno Nicola Mancino e il consigliere del presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio sono state citate dal pm Nino Di Matteo, nella sua requisitoria nel processo ai militari del Ros Mario Mori e Mauro Obinu, come “… uno dei tanti tentativi di strumentale inquinamento della prova in questo procedimento”.

In una delle chiamate, l’ex ministro è preoccupato che ci sia un accanimento dei pm che avevano chiesto il confronto in aula con l’ex guardasigilli Claudio Martelli. “Questo è il processo nel quale Mancino ha palesato di non tenere in conto l’autonomia del vostro giudizio chiamando il consigliere del Presidente della Repubblica Loris D’Ambrosio, cercando conforto nelle più alte cariche dello Stato per evitare il confronto – ha spiegato Di Matteo – E’ il processo in cui testi particolarmente qualificati come ministri o membri delle forze dell’ordine hanno reso dichiarazioni contraddittorie e incompatibili. A molti è venuta la memoria solo dopo le dichiarazioni di Massimo Ciancimino”.

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