Il pomeriggio del 23 novembre 1980 trascorse come una qualsiasi altra domenica autunnale: gente a passeggio per le strade o in preghiera nelle chiese, il Natale che si avvicinava, le luci accese nelle case della borghesia cittadina e dei contadini di campagna. La vita di sempre, interrotta dal dolore dell’imprevedibile e dell’inimmaginabile. Alle 19.35 un boato, la terra trema sotto i piedi, i lampadari tintinnano. Segue il silenzio più assordante, quello della morte, dell’incredulità, delle persone che, con le orecchie che fischiano e il cuore impazzito, si precipitano giù per le strade. Poi il caos dell’incertezza e dei primi bilanci. La mattina dopo si parla di Napoli, si parla di Potenza. I giornali scrivono di un terremoto che ha sconvolto la Campania e la Lucania ma di Avellino e dei suoi paesini nessuno sa ancora niente.
Dimenticate le recenti immagini del terremoto d’Abruzzo. Dimenticate la macchina – quasi perfetta – dei soccorsi, le squadre di professionisti, le tende montate dopo neanche un’ora e gli psicologi ad assistere gli sfollati. Le cronache dell’epoca riportano di una macchina organizzativa paurosamente lenta, asmatica, elefantiaca. La moderna Protezione Civile neanche esisteva e, con le comunicazioni interrotte e le strade e le ferrovie (quelle ancora percorribili) ingombre di macerie, il quadro della situazione si riuscì a delineare con tanta fatica e fatale ritardo.
In alcuni casi i soccorsi misero per la prima volta piede in paesini come Teora, Sant’Angelo dei Lombardi e Lioni, addirittura dopo cinque giorni. Paesi dove per avere una stima dei morti, si faceva prima a fare il contrario, a contare cioè i pochi sopravvissuti. Ventinove anni fa l’Irpinia ha scritto la più infausta pagina della sua storia. Nella città di Avellino crollarono le case antiche, il centro storico si polverizzò insieme al conservatorio Cimarosa, cadde l’allora simbolo della città, la Torre di Cosimo Fanzago, il Duomo ne uscì sconvolto. Danni notevoli e profonde ferite per le vie della città come in via Cascino, via Due Principati, via Ferriere, via Mancini, Corso Europa. Anche qui i soccorsi tardivi, i servizi basilari come luce e acqua erano un lontano ricordo.
I morti irpini furono 2mila 700. Sant’Angelo dei Lombardi, Teora e Lioni furono ribattezzate “il triangolo della morte” perché proprio questi paesi pagarono il prezzo più grande. A Sant’Angelo crollò il ‘modernissimo’ ospedale, seppellendo i medici e i piccoli pazienti del reparto pediatrico. Solo per miracolo la piccola Carmencita Antoniello si salvò: nata prematura il 19 novembre, era infatti stata messa in incubatrice. Quell’apparecchio la protesse dalle macerie nel crollo dell’ala che accoglieva il reparto di pediatria dell’ospedale. Il sisma si portò giù anche l’affollatissima “Discoteca”, luogo di ritrovo domenicale della gioventù altirpina. I morti furono 26. A Caposele (circa 80 morti) neanche il Santuario di San Gerardo fu risparmiato. A Teora fu distrutto praticamente il 95% delle costruzioni e i morti furono 150. A Lioni, un’isola di ricchezza in un deserto di povertà, anch’essa inghiottita dal sisma, Angelo Rosamilia, venne eletto sindaco, tra e da chi era sopravvissuto dell’amministrazione, la notte tra il 23 e il 24 novembre in una riunione straordinaria tenutasi nel freddo di una tenda. Qui rimasero sotto le macerie in 228. A San Mango sul Calore dei 1600 abitanti, 730 rimasero senza tetto, 250 furono i feriti, poi il resto tutti morti.
Ventinove anni dopo, in questi paesi, trasformati in tumori di macerie e calcinacci grigi nel verde delle montagne irpine, tutto, o quasi, è tornato come prima. Conza della Campania, epicentro del sisma, è stata ricostruita ex novo in un luogo completamente distaccato da quella vecchia. Il terremoto è un ricordo vecchio ventinove anni: immagini in bianco e nero di un film girato una vita fa. La ricostruzione è praticamente ultimata ovunque ma le ferite, quelle, si riaprono ogni qualvolta il calendario segna la data del 23 novembre. E l’immensità della tragedia continua ad aleggiare sui tetti che non ci sono più, nelle varie “piazza XXIII novembre”, nelle menti di chi, in quella domenica autunnale di 29 anni fa, è stato attore involontario di questa pellicola sbiadita dal tempo.
