Luca Daniele, esploratore di emozioni in fotografia

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Luca Daniele

Luca Daniele ha il piglio elegante dell’artista bohemienne, che si riflette nei suoi scatti, pervasi di una malinconia e di un fascino retrò che fanno immediatamente pensare alle atmosfere di una Parigi o una Buenos Aires d’annata. 

Per età lo possiamo collocare nella “nouvelle vague” della fotografia avellinese, è infatti nato nel 1978 ed è da sempre un apprezzato e creativo grafico pubblicitario prima presso De Venezia Design Studio e, da diversi anni, presso Grafistudio Associati.

Non è molto antica la sua passione per lo scatto, ma si giova, indubbiamente, di tutto il suo passato professionale, che lo ha reso acuto osservatore e raffinato compositore di immagini che catturano al primo sguardo, e ancor più al secondo.

Oltre alla fotografia, coltiva la passione per il tango argentino il cui passionale languore ben si sposa con lo stile di Luca che, non a caso, ama girare per la città con la sua bici nera retrò osservando ogni volto e ogni dettaglio con una morbida, felina ironia.

Luca Daniele, com’è nata la passione per la fotografia?

Luca Daniele
Luca Daniele

“Non saprei dire come, ma piuttosto perché è nata in me una esigenza di comunicare in qualche modo le mie emozioni; è venuta da se, un giorno ho iniziato a pensare di voler lasciar traccia di me, a lasciar dei segnali del mio sentire e ho comprato una macchina, da quel momento non me ne son staccato più, ogni giorno è un appuntamento che mi regala momenti di emozione e anche di astrazione dalla realtà che non sempre regala una visione più appagante della vita”.

Quali sono i suoi maestri o le sue fonti d’ispirazione?

“Ho iniziato a conoscere Henri Cartier Bresson ed è stato un colpo di fulmine, una sorta di elezione che senti dentro, una strada da seguire, il modo di vedere, la poesia delle sue foto mi hanno catturato, è ancora oggi il mio primo ideale di foto da perseguire. Poi ho apprezzato e spesso riprendo e ripercorro pubblicazioni di Doisneau, mi attira la notte di Brassai, Gardin, il primo Scianna, e sono sempre a documentarmi sui grandi fotografi della Magnum. E’ la scuola che avrei sempre voluto frequentare ogni giorno senza il timore di essere interrogato alla cattedra”.

Quali sono le tecniche che predilige nella realizzazione dell’immagine?

“Fondamentalmente ho sempre scattato in digitale, forse aver iniziato in un’epoca dove tutto è più veloce mi ha fatto perdere il piacere dello sviluppo in camera oscura, che mi riprometto di sperimentare prima o poi. Tendenzialmente scatto già in bianco e nero perché ha delle note compositive che sento più vicine, ma non disdegno di provare anche foto dove i colori prendono il sopravvento”.

Paesaggio, reportage, ritratto, quali sono le diverse emozioni che le suscitano?

“Il paesaggio come inteso in genere non ha un fascino importante sul mio modo di vedere, qualche volta scatto di luoghi che sembrano altro da quel che sono, non mi piace l’identificazione mera e semplice. Preferisco che un paesaggio possa essere un posto da ritrovare nella propria anima, questo è quel che cerco di trasmettere.  Il ritratto è invece qualcosa che mi attira molto, cogliere l’attimo in cui gli occhi svelano l’anima di una persona, raccontano la sua storia. E’ qualcosa che cerco spesso, gli occhi prima del corpo mi generano una curiosità e fermarmi poi a scoprire cosa c’è dietro, l’altrove di ognuno di noi è un valore che credo abbia molto peso in uno scatto. Il reportage è la dimensione alla quale aspiro più di ogni altra, avere l’occasione di raccontare in una serie di scatti le emozioni, cercare di cogliere un senso nei gesti quotidiani, o in un evento, spero di avere un giorno l’opportunità di poter raccontare tanto con le mie immagini, sarebbe il mio modo di regalare il mio punto di vista sulle cose”.

Un episodio divertente e uno commovente dal suo album dei ricordi fotografici.

“Di divertente non c’è molto, a parte l’essere scoperti magari da una bella ragazza, che seduta un po’ distante, si accorge del tuo occhio indiscreto, ma poi ricambia con un sorriso, questo può accadere molte volte e fa piacere non essere visto come un ficcanaso. L’episodio che mi ha fatto scoprire come una macchina fotografica può aprirti alle persone è stato in un Cafè, a Londra, dove mi ero recato per un english breakfast. E’ stato divertente chiacchierare con un cameriere che ha voluto scattarmi una foto con la mia macchina e vedere quelle che avevo scattato in zona. Sono situazioni che regalano sorrisi e un po’ di fiducia in più. La commozione poi è un elemento molto presente nel mio modo di vivere la fotografia, anzi direi che è la spinta per far sempre meglio; fino a quando continuerò a emozionarmi e vedere una lacrima scendere dal mio viso davanti ad una foto, avrò sempre l’idea di aver fatto qualcosa di importante, almeno per me”.

Quali sono le mostre o le pubblicazioni più importanti cui ha partecipato?

“Nonostante la mia non proprio giovane età, ho iniziato davvero da poco ad avvicinarmi costantemente alla fotografia, per ora ho potuto partecipare ad una collettiva nel centro storico di Salerno, ma ci sono un paio di prossime esposizioni che sono in cantiere. Insomma è tutto in fieri”.

Oggi la fotografia è ormai completamente digitale, i tempi romantici dell’attesa in camera oscura sono quasi archeologia, ci può essere lo stesso calore nelle immagini, la stessa emozione e possibilità di lavorare i supporti come si faceva un tempo con i chimici e la carta?

“Sicuramente il fascino dello sviluppo in camera oscura, l’attesa e le sperimentazioni che potevano provare senza la fretta che si impone oggi davano alla fotografia un peso maggiore e un valore diverso. L’importante credo, però, sia ricordare l’importanza della composizione, il vedere l’armonia degli elementi che compongono una foto che possa restare nella mente continuando ad evocare anche dopo averla lasciata su un muro o sullo schermo di un computer”.

A suo avviso c’è abbastanza spazio per la fotografia nella nostra città?

“Dipende dai punti di vista, credo. Ora come ora io vedo una enorme difficoltà in città per dar spazio alla cultura in genere. Ci sono associazioni che cercano nel loro piccolo di offrire dei terreni fertili di comunicazione per chi vuol far conoscere la propria arte, l’ispirazione che può generare bellezza e regalare emozioni. In città gli spazi più “accorsati” hanno un  costo e nemmeno basso, e altri spazi sono più decentrati o strutturati non in modo adeguato per  allestire una mostra in un modo degno. Inoltre credo più che altro che bisogni capire se si può creare un polo ricettivo dove avere continui scambi, un modo di darsi continui stimoli tra persone che hanno una comune passione. Quel che vedo è un inutile e controproducente ignorarsi tra la maggior parte dei fotografi della zona, la mia idea invece di fotografia o di qualsiasi altra arte, è quella di avere un posto dove ritrovare chi ha qualcosa da dire, da mostrare, da condividere con chi ha la sua stessa sensibilità, è un aiutarsi a crescere, sperimentare, senza invidie, ma solo per il piacere dell’arte e del bello. Concorrere per uno stesso obiettivo. Nelle grandi città era un modo per non disperdersi, in una piccola realtà sembra invece si voglia cercare di ampliare le proprie vedute allontanandosi, ma di pochi chilometri poi in fondo”.

Quali sono gli altri fotografi irpini di cui apprezza il lavoro, a suo avviso c’è una “scuola avellinese” di fotografia? Possiamo eventualmente ricostruirne un po’ la storia?

“Ho avuto la fortuna di conoscere delle belle persone che sono nel mondo della fotografia irpina, in particolare mi sono confrontato e ho seguito con piacere i consigli del maestro Chiorazzi, apprezzo il lavoro di Antonio Bergamino e di un giovane irpino che ha scelto di prendere una strada più internazionale, Costangelo Pacilio e che seguo con piacere. Dimentico sicuramente altri, ma tendenzialmente mi piace osservare i punti di vista di tutti coloro che hanno un sentimento di bellezza fotografica, poi logicamente è una scelta di affinità elettiva che mi porta più vicino ad alcuni piuttosto che ad altri”.

Giovani e fotografia, se ne vedono tanti in giro con le reflex, c’è desiderio di imparare la tecnica oppure prevale l’approccio “istintivo” all’immagine?

“In realtà io non ne vedo tanti per Avellino, anzi, almeno con la reflex, vedo purtroppo un dilagante uso del telefono per scattare foto, selfie e tutto ciò che non lascia traccia. Per carità, ad ognuno la libertà di esprimersi, ma spero ci sia sempre una distinzione netta tra ciò che è la fotografia come ricerca di evasione e l’arte pura della fotografia d’autore. Per quella, non basterà un po’ d’improvvisazione e uno smartphone d’ultima generazione, ma cuore, senso della composizione e voglia di dire qualcosa attraverso un istante”.

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